lunedì 30 marzo 2009

L'acclamazione oceanica, così nasce un partito

È l’una di domenica mattina, per chi ci va l’ora della Messa, quando Silvio Berlusconi dice: «Il Popolo della Libertà guiderà la Terza Ricostruzione». La sua immagine è riprodotta in cinque megaschermi, migliaia di occhi sono puntati sul replicante gigantesco in video, nessuno guarda l’uomo in carne ed ossa minuscolo, quasi invisibile laggiù. Fuori dal padiglione 8 centinaia di persone premono per entrare ma non si può, la sala è troppo piena. Urlano, sono assessori e consiglieri, presidenti di municipalizzate con le mogli: ne hanno diritto, hanno fatto ore di viaggio e vogliono sentirlo. Il megamostro della nuova Fiera di Roma costruita nel nulla brulica di popolo delle Libertà: sulle scale mobili e sui tapis roulant, lungo i chilometrici corridoi, nei sottoscala a scambiarsi numeri, sotto le gallerie di plastica a ripararsi dal vento. Una città fantasma improvvisamente abitata da una folla compatta. Cosa ha detto? Chiede sudato un siciliano sui sessanta in abito scuro rimasto fuori a premere. Ha detto: guideremo la terza ricostruzione, risponde la guardia privata che gli inibisce l’ingresso.

Il boato di applausi filtra dalla porta antipanico socchiusa. Il popolo della Terza Ricostruzione gioisce, dentro e fuori. Quali siano state le Prima e la Seconda ricostruzione non è importante. Di cosa si nutrirà la Terza in fondo nemmeno. Quello che conta è avere un compito: una missione supereroica e intergalattica, un posto magnifico dove andare tutti insieme a bordo di autoblu in corsia preferenziale, ma anche no.

Gli italiani stanno con chi vince. È una storia antica. Francia o Spagna. Gli italiani - la maggioranza degli italiani - acclama il vincitore: il suo potere, la sua corte, si lascia accarezzare dai tentacoli lunghissimi che tintinnano denaro, occasioni, opportunità, promesse. Cerchi concentrici di benefici a cascata, dalla sorgente fino all’ultimo rivolo. Gli italiani hanno famiglia. Stare al sole conviene, chiunque abbia buon senso capisce che è meglio di rabbrividire all’ombra. Si spostano rapidi, a volte - nella storia - hanno cambiato colore in un giorno. Non tutti certo. Naturalmente non tutti: moltissimi però. «Siamo il 44 per cento», dice ora l’onnipotente dal palco. Se anche fosse il 40 o il 38 non cambierebbe molto. È vero: sono passati 15 anni dalla discesa in campo, non un giorno, ma quel che è successo è questo. Qui non c’è più il partito di plastica della fondazione, i venditori di Publitalia e i dirigenti della Standa. Non c’è più lo scheletro d’acciaio messo su da Scajola con le tessere di quelle che furono i resti della Dc e del Psi. Non c’è solo il Sud degli apparati, il Nord delle fabbriche, la nomenklatura degli aspiranti potenti.

Nel padiglione 8, oggi, c’è un pezzo importante di paese reale - pochi i vecchi, molti i nati e cresciuti nel frattempo - che crede e acclama il profeta della Terza Ricostruzione. «Missionari della libertà» che dalla missione hanno e avranno solo da guadagnare: piccole commesse e grandi appalti, un posto per il figlio e una particina in tv, un invito a cena, un contratto da consulente alla provincia, un lavoretto o un ministero. Sotto il palco due bellissime ragazze gemelle - una in stivali bianchi, l’altra in sandali di strass - implorano la body guard: «Ci lasci passare, noi lo conosciamo bene. Vedrà: se ci vede ci riconosce». Lui sorride e risponde «non ne dubito, il presidente ha buon gusto». Luisa Todini, ex giovane imprenditrice funzionale al progetto qualche lustro fa, sfila via da un corridoio laterale. Nuove diciottenni vestite di azzurro avanzano. «Salutami il ministro», dice con forte accento calabrese un corpulento stempiato a una post-adolescente.

Lei annuisce e inclina il capo correndo. Nel discorso della fondazione non c’è nulla. L’unica notizia è che sarà capolista alle europee, del resto si sapeva. Il presidente del consiglio capolista per l’Europa: ovvio che non ci andrà mai. Sfida l’opposizione a fare altrettanto come se fosse il suo un gesto nobile anzichè una truffa. Per il resto: nulla di nuovo, nulla di vero. Berlusconi ha preparato un compito per punti. I giovani, due minuti: no agli aiutini, «no alle corsie preferenziali come nel ’68», case ai ragazzi per «farli uscire dal guscio». Applausi, inquadrature di studenti adoranti. Scuola e università: quattro minuti. Rivoluzione digitale a scuola. E-booking. Gelmini Applaude dietro gli occhiali. Chiudere le piccole università premiare le grandi. No alle baronie di parenti e amici. Nuova ovazione. Donne: tre minuti. «Esiste una questione femminile in posizioni di vertice». Giorgia Meloni fa sì con la testa schierata in prima fila col governo al completo. Ambiente: un minuto. Non imbrattare i muri, non buttare la carta per strada. Entusiasmo e sventolio di bandiere all’importante annuncio.

Costituzione: trenta secondi. «Vogliamo cambiarla per arricchirla». Pubblica Amministrazione: abbatteremo il Moloch, ci penserà Brunetta. Apoteosi per Brunetta, Robin di questo Batman, supereroe in seconda. Una parola di elogio anche a Tremonti, per evitare ripicche in consiglio dei ministri, una vaghissima in risposta a Fini autore dell’unico vero discorso politico della tre giorni. Niente di concreto, naturalmente. Fini oltretutto deve averlo intuito e non c’è. Menia, per An, è l’unico che a fine giornata ironizza: «Si vede che Berlusconi ha deciso di rispondere un altro giorno». Coraggiosissimo, Menia. Teniamo d’occhio le sue sorti. Così come Fini aveva elencato i temi della politica e della vita - xenofobia e laicità, referendum e crisi economica - Berlusconi ha evitato di farlo.

Il premier non parla del mondo che c’è: parla di quello che vorrebbe ci fosse. Non vive nel mondo reale ma nella fiaba che immagina. Non affronta i problemi, non entra nel merito di nessuno: annuncia che saranno tutti quanti superati dai missionari della Libertà guidati da lui medesimo nella terza era nel nuovo mondo. Lo acclamano come un profeta, il condottiero. I delegati che lo filmano coi videofonini stringono sottobraccio l’incredibile brochure che il presidente ha preparato per loro: il discorso della discesa in campo del ’94 scritto in caratteri gotici da amanuense e impaginato su carta di prestigio come una fiaba, fiori e foglie fra i capitoli. «C’era una volta un Re…», in edizione limitata, un vero cimelio per i posteri.

Non è solo fiabesca però questa storia. Non sono fanciulli le migliaia di persone qui dentro e i milioni fuori da qui. Sono adulti che direste consapevoli. Quando, alle due, il Signore della Terza Ricostruzione dice «voi siete, vi nomino adesso missionari della libertà» - il gesto è quello di Re Artù - un brivido autentico percorre la sala. E’ l’investitura solenne. È l’atto finale e insieme iniziale di un cammino elevato al rango di saga. In tre capitoli, tre atti. Una miscela di tradizioni letterarie, cinematografiche, televisive e religiose diventano qui partito politico. La città fantasma e la missione rifondativa rimandano ai mondi sovrappopolati di Anthony Burgess, ai labirinti a pianta ottagonale di Borges, alle fiabe gotiche e a «Guerre Stellari». All’«Esercito delle dodici scimmie» (il virus è il comunismo) prima ancora che al «Pianeta delle scimmie». «La nostra forza sopravviverà ai suoi fondatori», grida adesso. La gente in piedi scandisce il suo nome, Sil-vio Sil-vio.

Ogni vero messia ha generato popoli, alcuni credono nel pantadimensionismo, ci sono guru che spiegano che veniamo da un’asteroide altri che immaginano la rinascita in un mondo di quarzi. «Siamo una felice espressione della cultura del nostro tempo: la cultura del fare». Non c’è ideologia, dunque. C’è un pragmatismo da televendita, Iva Zanicchi è raggiate, una dimensione spettacolare e televisiva del potere che ormai anche Gasparri e La Russa, gli sgherri del sovrano, hanno imparato coi loro ghigni a riverire.


Quando è il momento di cantare l’Inno d’Italia tutti insieme il Signore della Terza Ricostruzione chiama accanto a sé le dame: Mara Carfagna è la più bella e la più intelligente, una supremazia riconosciuta dalle altre - ci vuole talento, del resto - che si fanno un passo indietro. Tajani quasi piange. Ronchi con lo sguardo di gelo mastica chewing gum, Brunetta si fa strada verso il leader incoraggiato da Stefania Prestigiacomo china su di lui. Al momento di declamare «siam pronti alla morte» l’onnipotente si concede la goliardia consueta, fa cenno con la mano: mica tanto, la morte no. Tutti ridono. Alemanno al momento dei saluti gli affonda la testa nell’ascella, Tremonti gli fa un cenno di lontano con la mano, le ministre lo baciano, Ronchi continua a masticare, Scajola sta discosto, Tajani resta sul palco fino all’ultimo, lui da solo al posto del leader in un momento di privata commozione. La folla scema dalla città nel nulla, l’ingorgo è tale che ci vogliono due ore per tornare nel mondo. Le (moltissime) auto blu sgommano in corsia di privilegio, gli altri arrancano in coda a passo d’uomo. Nel percorso obbligato si passa sul tetto di tre casette a due piani rimaste imprigionate dal megamostro edilizio. Hanno le inferriate alle porte e ai balconi. L’antenna parabolica sul tetto. Dietro le tende si intravedono sagome di umani a tavola, reduci della seconda ricostruzione o forse della prima. Superstiti di un mondo scomparso, il mondo reale. Avendo le paraboliche avranno saputo della terza era di conquista in tv